Racconti

A  G R O T T A F E R R A T A

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Ricordo l’estate del 1917. Mio padre era stato distolto da qualche mese dal fronte per andare a comandare un campo di prigionieri in Sicilia, ed io ero appunto giunto per le vacanze, un po’ infastidito dalle continue effusioni della mamma che voleva rifarsi della lunga separazione e non mi lasciava un istante. A tavola, di fronte a lei, mi sforzavo di evitare quello sguardo che cercava il mio, e quel lieve scuotere di testa che voleva chiedermi di nascosto perché fossi così musone.

Non ero musone, cercavo solo di darmi un contegno per annunziare la mia intenzione di arruolarmi volontario e per chiedere a mio padre di firmarmi il consenso. Ella mi guardò atterrita, col tovagliolo premuto sulla bocca, e gli occhi si volsero supplicanti verso mio padre, che a testa bassa si tormentava nervosamente i baffi, allora li portava folti. Ma già sapeva, come la sapevo io, la risposta: un militare, un ufficiale superiore, non poteva dissuadere suo figlio dall’offrirsi volontario. Si alzò disperata ed andò di là a sfogare la sua pena.

Pochi giorni dopo mio padre stesso mi accompagnò a Palermo per presentarmi in caserma, ed a me sembrò di essere liberato dall’ossessione di quella donna che girava per casa con gli occhi gonfi dal lungo piangere. Tre mesi più tardi i cancelli della caserma si spalancarono e sfilammo con la musica in testa davanti alla guardia che presentava le armi. Fuori la città era tutta imbandierata: s’era sparsa la voce della partenza dei volontari di guerra e le strade erano piene di gente che acclamava. Di fianco alla colonna una carozzella seguiva passo passo la mia quadriglia: mia madre con i miei fratelli accanto non distoglieva gli occhi da me.

Io ero felice: a diciassette anni una bandierina che qualcuno ti ha infilato nella giubba, una musica che ti segna il passo e gli applausi della gente bastano ad accenderti di entusiasmo. E’ l’avventura che comincia; un moschetto che è tuo e le giberne piene di caricatori ti danno una eccitante sensazione di potenza. E non sai che la guerra non è come te la sei immaginata attraverso le letture eroiche che t’hanno abbeverato, ed è fatta soprattutto di fatiche e di stenti. Non sai che dovrai dormire sulla terra e sguazzare nel fango, il fango tenace che si appiccica agli scarponi e ti fa il passo pesante, e che dovrai camminare e camminare, di notte, in silenzio, e quel moschetto e le giberne ed un tascapane pieno di bombe a mano ti segheranno le carni dopo dieci ore di marcia, e non avrai più che un desiderio solo, quello di buttarti giù con l’elmetto in testa e tutta la roba che ti affardella per smaltire la stanchezza ed il sonno che ti ubriacano. E dovrai abituarti a considerare con un senso distaccato di fatalità il compagno che t’ha chiesto una sigaretta ed il mulo che t’ha mangiato nella mano giacere senza più bisogno di nulla, uccisi da un nemico che non hai visto in faccia.

Tu non sai ancora niente, e guardi allegramente quella povera donna nella carrozzella che ti segue passo passo, pago di quel sorriso stanco che ti risponde; solo più tardi, quando la nostalgia della casa tua ti stringerà la gola, ricorderai che quegli occhi erano gonfi e la mano che ti salutava stringeva un fazzoletto spiegazzato.

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D U E  O C C A S I O N I  M A N C A T E

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Il corteggiamento dunque era d’obbligo e durava a lungo anche quando era diretto esclusivamente ad ottenere un appagamento sessuale perché la donna che fin dall’inizio aveva deciso di concedersi ci teneva poi a non essere scambiata per una di quelle. C’erano però delle scorciatoie, imboccate con mezzi sornioni che i giovani d’oggi si vergognerebbero di dover confessare.

Oggi una donna che si sente dare un colpettino col ginocchio dal suo vicino di tavola non ci sente malizia: può essere un atto casuale o anche un discreto richiamo a qualcosa che sta succedendo lì davanti e di cui si vorrebbe ridere insieme, e può darsi che la donna risponda con un altro colpettino per far intendere che anche lei si gode la situazione. Niente di male, insomma.

Allora invece le cose non andavano così e la donna che si sentiva appena toccare col ginocchio schizzava lontano il suo come se fosse stato punto da uno spillo. Una reazione alla quale nessuno era così sciocco da esporsi, e occorreva dunque ricorrere a metodi più subdoli, un piede saldamente poggiato a terra per dare ampia manovrabilità al ginocchio che avanzava un millimetro alla volta fermandosi quando una piega di pantalone veniva a confondersi col lembo di una gonna. Un contatto di abiti è una cosa così inconsistente che può anche non essere avvertito, ma se la donna allontanava prudentemente il ginocchio bisognava rinunziare all’impresa; poteva capitare invece che desse una sbirciatina al suo compagno che sosteneva l’indagine senza batter ciglio, continuando a parlare sullo stesso tono o a tacere distratto.

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Quando i due ginocchi erano giunti ad un millimetro di distanza, pensate alla piccola suspense che ne veniva, come ad un giocatore di poker che scopre le sue carte ad un filo di capello per volta. “Ci starà?” si domandava l’uno, e: “ci proverà?” si domandava l’altra, fino a che avveniva quel contatto che stabiliva una sottile corrente di piacere. Un piacere tenue, si capisce, nel quale entravano come ingredienti una piega di pantalone e l’orlo di una gonna e al quale avete rinunziato mettendovi nudi fin dal principio. Non potete pretendere che un tizio

al quale pizzica la gola per il mezzo bicchiere di cognac ingollato in un sorso solo, possa poi provar piacere a farsi passare delicatamente sotto il naso il bicchiere per apprezzarne come fanno gli intenditori il cosiddetto bouquet.

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I  D U E  C O M P A R I

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Ed ecco che una volta in piedi il tepore mi si scrolla di dosso e quell’arietta fresca mi infonde un pizzico di baldanza giovanile che mi fa fare quasi di corsa gli ultimi gradini per trovarmi, una volta su, faccia a faccia col somaro che mi sbarra il passo.

Coi somari, si sa, non c’è da far complimenti; non gli si può mica dire: “è permesso?”, e quello poi era un somaro mezzo addormentato, proprio come lo ero io un momento prima. Viene del tutto naturale, no?, di appoggiargli una mano sulla fronte e spingere per fargli dare un passo addietro. E siccome quello aveva ubbidito pazientemente, che c’era di male a premiarlo con un paio di manate amichevoli sul collo? In quella mi volto e vedo mio figlio che gira la pellicola della macchina fotografica, la prepara insomma per un nuovo scatto. Mangio la foglia ma domando lo stesso:

– Che c’è? –

– Niente! – mi fa lui con una faccia enigmatica.

E due giorni dopo la fotografia viene fuori debitamente ingrandita. Ora è naturale che io avessi il sorriso sulle labbra perché la situazione era in sé stessa divertente. Ma quell’accidente di bestia doveva aver cercato di scansare la carezza dando di colpo la testa, ed è venuto anche con le labbra rialzate a scoprire i denti. Così sembriamo due vecchi amici che si fanno le più matte risate per qualche spiritosaggine, proprio di quelli che si danno delle grandi manate per aumentare il gaudio, perché quel mio braccio teso sembra parlare chiaro. Guardate un po’ che vi va a combinare il caso!

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I L  Q U A D E R N O  D I  C H I M I C A

1918 – ALBANIA

Nella baracca numero sei si allineava lungo le pareti una cinquantina di brande dove gli uomini covavano in silenzio la loro sofferenza. Spuntavano dalle coperte le facce irsute dalle fronti imperlate di sudore e gli occhi socchiusi, e nell’aria alitava il lezzo dei corpi malati mescolato all’odore della creolina. Inutile chiamare, lo si sapeva per esperienza, perché tanto non veniva nessuno, ed il chiamare inutilmente con una voce fioca che non andava lontano portava all’esasperazione, e si finiva a poco a poco per urlare, col solo risultato di farsi appuntare addosso gli occhi infastiditi dagli altri. Bisognava aspettare che passasse un soldato frettoloso che faceva segno di attendere, per ritornare poi chissà quando.

Da una di quelle brande levava gli occhi alle lamiere ondulate del tetto un viso imberbe di ragazzo, con l’aria rassegnata di chi si appresta a passare una intera giornata senza altre distrazioni che la visita medica, il rancio delle undici e quello delle sei, con la immancabile distribuzione di chinino.

Quel ragazzo ero io, appena sfebbrato da un allucinante attacco di malaria.

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– Signor capitano – azzardai timidamente.

– Che c’è? –

– Quando potrò uscire? –

– Eh, come corri! Non prima di otto o dieci giorni. Perché, ti annoi forse? – domandò facendomi la faccia feroce.

– Sicuro che mi annoio! –

Il maggiore sorrise.

– Lei è studente? – domandò gentilmente.

– Signorsì – risposi un po’ solleticato da quel “Lei” che non mi aspettavo.

– Il tenente farmacista mi ha chiesto un aiuto. Vorrebbe andarci lei per questi giorni che deve passare qui? –

– Si figuri! Posso andarci subito? – domandai facendo l’atto di buttar per aria le coperte.

– Ih, che furia! – esclamò il capitano – Come vuoi andarci, in camicia? Sergente, provveda! –

– Signorsì. –

Poco dopo, vestito, mi avvolgevo con cura attorno alle gambe le fasce sfilacciate, appoggiando il piede su quella branda vuota che ormai non mi diceva più niente.

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………………Non vedevo l’ora che giungesse da Valona il nuovo farmacista!

Arrivò il terzo giorno, in un tardo pomeriggio, mentre ero intento a dosare delle cartine. Udii girare la maniglia della porta di ingresso ed un vocione che diceva:

– Ehi! –

Capii che era lui e subito dopo me lo sentii alle spalle, ma non potevo voltarmi: si trattava di oppio. Appena ebbi finito mi raddrizzai e scattai sull’attenti.

– Comandi! –

Era un uomo basso e tozzo di una quarantina di anni, un po’ trasandato, e con una discreta pancia che il cinturone tagliava a metà. Il berretto buttato all’indietro scopriva una selva di capelli scuri su un faccione bruno e sanguigno dall’aria aggrondata, con una fronte bassa e due baffi da tricheco che scendevano a coprirgli le labbra.

– Cosa facevi? –

– Delle cartine, signor tenente. –

– Eh, ho visto! Ma quello era oppio! –

– Signorsì, due milligrammi per cartina, una dose consentita. –

– Ma lo sai che è un veleno? –

– Signorsì, ma non è la prima volta che maneggio veleni. Nelle cartine che ho spedito ieri c’era del nitrato di stricnina, e poi ho preparato delle pozioni con tintura di strofanto. –

– Ah, si, e quanti ne hai ammazzati? –

– Nessuno, direi; il numero dei morti in questi giorni è rimasto lo stesso di prima. Ho verificato! –

– Roba da matti! –

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IN PARADISO

L’Anima spalancò di colpo la porta ed irruppe nell’ufficio.

– Ma insomma, si può sapere cosa stanno facendo con l’ossa mie? –

– Sss… – fece l’Angelo seduto alla scrivania sollevando a metà un’ala, mentre continuava ad addizionare le cifre in un grosso registro.

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– Un minutino solo – implorò l’Anima – è cosa importante! –

– Benedetta pazienza! – borbottò l’Angelo alzandosi e andando alla finestra – Ti fanno impressione quelle bare scoperchiate, eh! Che ci vuoi fare?… E’ la vita! –

– Già, il fatto è che… ecco, vede quella bara tutta corrosa dove c’è un uomo in piedi vicino?… La seconda della terza fila. E’ la mia! –

– E con questo? –

– Ma sono le ossa mie!… La prego faccia qualche cosa… –

– Caro mio, da quassù non possiamo fare proprio niente. Tutt’al più gli si potrebbe mandare un terremoto, ma che non è il caso lo capisci tu stesso. D’altra parte hanno anch’essi le loro esigenze! –

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I N  P I A Z Z A  D ‘ A R M I

– Presentate le sciabole! –

Quel comando mi stava nelle orecchie dalla mattina e m’aveva sorpreso come un fatto destinato a sovvertire l’ordine naturale delle cose.

Tre giorni prima, quando il colonnello aveva passato in rivista il reggimento appiedato nel cortile della caserma, me l’ero cavata abbastanza bene con la sciabola al rituale presentat’arm, e non si poteva chiedere di più ad un sottotenente di trentadue anni che soltanto da otto giorni vestiva la divisa da ufficiale.

In linea di massima, ritornare dopo tredici anni nell’esercito che si è lasciato da caporalmaggiore, sia pure con una nuova dignità, non dovrebbe offrire difficoltà insormontabili. Il guaio era che il servizio lo avevo prestato quasi tutto in artiglieria da montagna ed ora mi trovavo in artiglieria da campagna; avevo lasciato muli e trovavo cavalli, e poi allora eravamo in guerra, che era la prima guerra europea, ed in Albania a certe cose non si guardava troppo per il sottile; quello che contava era marciare e sparare, e quando si sapeva di dover rimanere qualche giorno in un posto preparare le piazzuole per i pezzi e tempo avanzando qualche riparo per gli uomini e magari anche un po’ di trincea.

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Insomma tutto era andato liscio fino a quel pomeriggio in cui lessi sull’ordine del giorno che la mattina dopo il reggimento si doveva trovare con le batterie montate a piazza d’armi. Mi trovavo in un bell’impiccio perché nelle mie esercitazioni casalinghe erano state necessariamente trascurate l’equitazione e la scuola comando. Corsi subito dal capitano per pregarlo di esentarmi da quel servizio.

– E perché? – mi domandò meravigliato.

– Sa – risposi imbarazzato – non sono sicuro di stare in sella correttamente. –

– Come, non vorrà dirmi che non sa andare a cavallo? –

– Presso a poco è così, signor Capitano. Feci tre mesi da recluta quattordici anni fa, poi mi mandarono al fronte trasferendomi in artiglieria da montagna. Dopo di allora non mi è più capitato di montare a cavallo. –

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L A  C O R T E S I A

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Ricordo che molti anni fa ero a Milano di passaggio quando mi accorsi che mi si era fermato l’orologio: nella furia della partenza avevo dimenticato di ricaricarlo. Adocchiai un vecchio signore che se ne veniva lemme lemme con una bella catena d’oro sul panciotto e mi avvicinai togliendomi il cappello, ma quello non mi dette nemmeno il tempo di aprir bocca e mi afferrò tutte e due le mani.

– Caro amico – esclamò – mi scusi, non l’avevo visto! Come va, come va? A casa tutti bene? –

Ora se mi fossi trovato in tutt’altro posto avrei senz’altro creduto di trovarmi davanti ad un vecchio amico, perché sono proprio quel tipo che non riesce a ricordare una fisionomia; ma a Milano ero proprio certo di non conoscere nessuno, e siccome l’altro aveva tutta l’aria di non mollarmi, gli dissi il più urbanamente possibile:

– Scusi, ma ci deve essere un equivoco: io non ho proprio il piacere di conoscerla. –

L’altro che doveva essere un tipo suscettibile cominciò ad inalberarsi.

– Come, un equivoco? Ma se è stato lei a salutarmi per primo! –

– L’ho salutato, è vero, ma volevo chiederle l’ora. Sa, mi si è fermato l’orologio. –

– Ah, l’ora!… –

Me la dette e se ne andò tutto arruffato senza nemmeno rispondere al mio “grazie”.

Per la strada rimuginavo la cosa. Che male c’era ad averlo salutato? Avevo compiuto un atto di cortesia formale per chiedere una cortesia sostanziale, cioè l’ora; egli aveva risposto con un atto di cortesia formale chiedendomi notizie dei miei, ma poi era stato quasi scortese quando aveva dovuto farmi una cortesia sostanziale. Come una cortesia scortese? Qui lasciai perdere perché il ragionamento cominciava ad ingarbugliarsi.

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L A  Z I A  E L I S A B E T T A

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Quando invece si recano dalla stiratrice a ritirare la biancheria inamidata del cavaliere, il desiderio insorge più sottile ed insidioso. Nello stanzone c’è un caldo umido da foresta tropicale; dai lunghi tavoli si alzano nuvole di vapore che stagna nell’aria come una nebbia, tra i colpi di ferro si sente il ruggito di una stufa incandescente. Le ragazze vanno e vengono dai tavoli alla stufa per cambiar il ferro, e sono tutte un po’ scarmigliate, con qualche ciocca di capelli incollata alle tempie, accaldate, trasudanti animalità dai corpi giovani messi in libertà più che l’uso non consenta, le braccia nude uscenti dalle maniche rimboccate più su che è possibile e le camicette sbottonate al sommo del petto.

All’entrata della coppia il lavoro si ferma.

– Buon giorno cavaliere! – e subito dopo: – buon giorno signora! – per ristabilire l’equilibrio perché il viso della zia Elisabetta s’era fatto arcigno, ma le ragazze hanno fatto cerchio intorno al cavaliere. Si sa, sono giovani, esuberanti, il lavoro è duro ed ogni scusa è buona per interromperlo; quel vecchietto poi è uno spasso e distribuisce delle mance che non sono da disprezzare. La zia Elisabetta trova invece che queste donne diventano ogni giorno più sfacciate e cominciano a prendersi delle confidenze, e non ha poi tutti i torti.

– Cavaliere, ha la cravatta tutta per traverso, aspetti che glie l’aggiusti! –

Le mani si attardano a dare piccoli colpi mentre lo sguardo di lui affonda voglioso nella scollatura che si protende sotto i suoi occhi.

– Cavaliere ha tutte le spalle impolverate: qualche sudiciona deve aver battuto un tappeto dalla finestra. Assuntina, prendi una spazzola per il cavaliere! –

– Guarda, anche il cappello è impolverato! – La tuba passa di mano in mano fino a che glie la mettono in testa un po’ alla sbarazzina. La zia Elisabetta che ha ritirato il suo pacco cerca invano di rompere quella muraglia intorno al vecchio che di nascosto si fruga e mette in mano all’una e all’altra delle monete.

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L E  C O S E  M I E

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In questo studio ci son cose che per gli altri possono avere qualche valore ed altre che non ne hanno affatto, ma tutte mi sono ugualmente care: sono le cose

mie! Quando mi rifugio qui dentro affaticato da una giornata di lavoro, o perché voglio fuggire un mondo dove gli uomini sono lupi, son sempre queste che mi danno conforto, piccole cose che mi stanno intorno, piccole cose che mi sono compagne di pensieri, e qualche volte di speranze, di sogni, di illusioni!

Quando mi seggo a questa scrivania il seggiolone mi accoglie proprio come un vecchio amico, e se faccio per scrivere, questa penna ch’io reggo, come è familiare alle mie dita! Tutte le cose intorno mi dan suggerimenti; basta guardarne una, quale che sia, perché sia pronta a porgermi uno spunto, una parola.

Piccole cose care, voi siete mie soltanto per poco, perché la vita è breve! E mi si stringe il cuore a pensare che con l’ultimo mio respiro diventerete delle cose morte anche voialtre.

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Che bel falò si farà di tutto questo! E’ doveroso per chi rimane, e fa parte del rito funebre; ma nella mestizia della bisogna ci sarà qualcuno che esclamerà con un sospiro:

– Poveretto, conservava tutto! –

Si, conservo tutto, ma nessuno dirà più che è una mania: il rispetto ed il rimpianto lo impediranno. Ma quando dal fondo di un cassetto salterà fuori una busta ingiallita, si dirà ancora:

– Guarda, anche un foglietto di calendario! –

Un foglietto di calendario: 31 agosto, giovedì, Sant’Abbondio. E questo nome richiamerà alla mente non l’energico vescovo di Como ma il prete imbelle, e getterà un’ombra di ridicolo su una vicenda che è chiusa gelosamente in uno scrigno senza serrature, ma che non è per questo violabile. E l’ultima lingua di fiamma accartocciando la carta velina solleverà nell’aria uno strato impalpabile di cenere bianca, e l’ultimo ricordo di ciò che accadde quel giovedì 31 agosto, finirà anch’esso nel nulla.

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L E  M A E S T R I N E

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Non mancavano naturalmente la tavola pitagorica, compendio ultimo delle tabelline faticosamente studiate (chissà perché la più difficile doveva risultare per tutti quella del sette), ed infine una grande carta d’Italia che fu oggetto di una mia dotta dissertazione contro il parere di un collega il quale sosteneva a proposito di quel pezzetto di Tunisia che si vedeva in basso e dove c’era scritto “Africa” che l’Africa era tutta lì.

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Discussioni sul piano culturale tra i maschietti non erano rare nell’ora di ricreazione, contrapposti a certi insulsi giuochi di femminucce dove si parlava di bei castelli e di madame pollarole. Discussioni che diventavano violente quando qualche sovversivo tentava di infrangere gli idoli correnti, come quello che era stato una volta alle corse al trotto e voleva sostenere che c’erano cavalli più veloci di quelli dei pompieri. Tutti gli avevano fatto: “Bum!” ed avevano ragione perché i pompieri non solo erano imbattibili nella corsa, ma costituivano uno spettacolo irresistibile, tanto è vero che al fracasso del loro passaggio non c’era chi non corresse alla finestra.

Altre discussioni impegnavano opposte opinioni basate su tesi contrastanti, ma ugualmente plausibili. Per esempio, ammesso senza ombra di dubbio che una sentinella dovesse ammazzare chiunque cercasse di entrare indebitamente in una caserma, come doveva farlo: sparandogli o infilzandolo con la baionetta?

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Oggi non ci sono più i pompieri: ci sono i vigili del fuoco dalle attrezzature modernissime, ma chi vorrebbe negare l’efficienza ai pompieri di allora, agli uomini dall’elmo di cuoio con la cresta di ottone e l’alta cintura a strisce rosse dalla quale pendeva l’immancabile accetta? Vederli passare era uno spettacolo frenetico e possente che non richiamava alla finestra soltanto i ragazzi. Volavano i grandi cavalli con le criniere al vento, aizzati con la frusta e con la voce da un guidatore in piedi a cassetta, che non si capiva come non dovesse cader giù tanto si sporgeva in avanti nell’orgasmo di arrivar presto. Sobbalzavano i lunghi carri con le scale, con le pompe, con gli altri attrezzi e lo stesso orgasmo si indovinava nella mano che agitava senza posa il batacchio di una campana fissata in alto, lo stesso orgasmo si vedeva nel viso degli uomini aggrappati agli attrezzi, pronti a saltare a terra prima che i carri fossero fermi. Passavano con lo stesso ritmo due, tre carri ed infine quello che portava la caldaia a vapore, una caldaia verticale dal breve fumaiolo, tutta lucida di ottoni, che già fischiava mentre gli uomini impalavano carbone.

No, lasciatemele ricordare queste cose della mia fanciullezza: sono cose che ad un cuore vecchio e … sì, diciamolo pure, malato, fanno più bene di un ritrovato moderno!

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